Vai al contenuto

La solitudine dei non amati (Loveable)

Redazione

La solitudine dei non amati, della regista norvegese Lilja Ingolfsdottir, è uno di quei film che si vivono più che si guardano. Un’opera intensa e delicata, capace di esplorare la fragilità umana con una sensibilità rara, senza cadere nel melodramma.

Dentro il dolore, senza filtri

Maria – la protagonista interpretata in modo straordinario da Helga Guren – si trova a dover gestire il difficile equilibrio tra il ruolo di madre e le sue ambizioni professionali, mentre il marito Sigmund è spesso lontano per lavoro. Questa distanza, fisica ed emotiva, alimenta una tensione crescente nella coppia, fino alla separazione. Per Maria è uno shock profondo, che la costringe a guardare in faccia le sue paure più intime.

Il dolore dell’abbandono riattiva in lei ferite antiche, memorie sepolte e dinamiche irrisolte, a partire dal legame con la madre e dalla sua immagine di donna. È proprio scavando dentro queste relazioni che Maria intraprende un percorso di trasformazione. Da questo viaggio interiore, doloroso ma necessario, emerge una nuova consapevolezza, una forza emotiva interiore che non sapeva di avere.

Il film racconta con grande delicatezza la complessità dell’identità femminile, il peso delle aspettative e la vulnerabilità dei legami affettivi. Una storia che ci ricorda quanto sia difficile tenere insieme il tutto, e quanto coraggio serva per non perdersi.

Il film si muove con tempi lenti, meditativi, in una quasi totale assenza di colonna sonora. Una scelta registica che consente allo spettatore di restare a contatto con ogni emozione, ogni dettaglio, ogni respiro. Ci si trova immersi nella sofferenza di Maria, ma anche nella sua vulnerabilità che lentamente si trasforma in ritrovata consapevolezza. È un’esperienza che risuona nel profondo e che parla a quella parte di noi che conosce il dolore, ma anche il desiderio di rinascere.

La psicoterapia: uno spazio sicuro per tornare a sé

La rappresentazione del percorso terapeutico di Maria è toccante ed emotiva. In particolare in una scena, semplice ma potentissima: durante una seduta, la terapeuta le porge una coperta e la invita a sdraiarsi, a riposare, sottolineando che quello era il suo spazio terapeutico e che anche questo poteva farne parte. Un gesto apparentemente piccolo, ma carico di significato: cura, accoglienza, presenza. Un gesto che la libera, la fa traboccare di lacrime, con una regressione avvolgente e rassicurante nella quale si concede di nuovo la possibilità di volersi bene.

Non c’è bisogno di molte parole. In quella scena si coglie la profondità di un’alleanza terapeutica autentica, la possibilità di sentirsi visti anche nei momenti di maggiore vulnerabilità. La figura della psicoterapeuta non è lì per “aggiustare” Maria, ma per accompagnarla nella comprensione delle proprie dinamiche relazionali e nella rilettura della sua storia. Un percorso che non promette soluzioni immediate, ma apertura, possibilità, libertà.

L’arte che cura: un film come spazio trasformativo

La solitudine dei non amati, riesce in un’impresa rara: usare il linguaggio del cinema come strumento terapeutico. I lunghi silenzi, le inquadrature ravvicinate, l’assenza di spiegazioni forzate creano uno spazio simile a quello della stanza del terapeuta. Uno spazio in cui si può sentire riemergere l’emotivo, senza bisogno di puntare a capire un perché o costantemente colmare il vuoto con parole effimere.

Non ci sono risposte facili. Non ci sono “happy ending”. Ma c’è un movimento interno, una trasformazione sottile ma decisiva. E proprio per questo il film risulta tanto potente. Perché rispetta la complessità dell’animo umano. Perché parla a chi ha vissuto fratture interiori e mostra come da quelle stesse crepe possa filtrare una luce nuova.

Un finale che commuove e apre

Nel finale, Maria non “guarisce” in senso classico. Ma torna a sentirsi, ritorna a percepire la sua bambina interiore, la accarezza, la accoglie nel suo abbraccio e le/si concede di essere di nuovo amata. Comprende qualcosa di sé, delle proprie relazioni, dei propri antichi bisogni. Non si tratta di chiudere un cerchio, ma di iniziare un nuovo percorso. E questo – per chi lavora con la sofferenza psichica – è forse il messaggio più autentico che si possa trasmettere.

Perché vivere questo film

Questo film è una ferita silenziosa, difficile da raccontare e da condividere. La pellicola riesce a darle voce, a trasformarla in immagine, a renderla esperienza comune. È una storia per chi sta attraversando un passaggio fragile della propria vita. Per chi si sente perso, spezzato, incompleto. Per chi ha il coraggio, o la necessità, di guardarsi dentro.

Non è un film che consola. È un film che accoglie. Che accarezza le crepe dell’anima senza giudicarle, ricordandoci che essere vulnerabili non è una colpa, ma una condizione profondamente umana. E proprio lì, nel punto in cui ci sentiamo più soli, può nascere il primo timido bagliore di una nuova consapevolezza.

La solitudine dei non amati ci ricorda una cosa essenziale: anche nel dolore, anche nel buio, è possibile, un passo alla volta, ritrovare sé stessi. E forse, tornare ad amarsi.

Per scoprire la programmazione del film “La solitudine dei non amati” distribuito da Wanted Cinema, clicca qui

https://www.youtube.com/embed/cSpqrdbzqkk?si=M_roTSpXjiCTxMCI

Questo articolo ha puramente carattere divulgativo e non può/intende sostituirsi al consulto di un professionista della salute mentale.
Se ti è piacuto l'articolo, condividilo

Inizia un percorso di terapia su Mymentis

In Mymentis sappiamo quanto sia importante trovare la persona giusta con cui parlare.

Ti offriamo uno spazio sicuro, con professionisti pronti ad ascoltarti con profonda empatia e rispetto. Potrai esprimerti liberamente attraverso le video sedute, ottenendo tutto il supporto necessario per iniziare a sentirti meglio.